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Questioni varie in tema di carico urbanistico 
di Silva Gotti
14/5/2018

 

Sommario: 1. La rilevanza della qualificazione degli interventi edilizi ai fini dell’aumento del carico urbanistico e dell’onerosità del titolo. 2. La nozione di carico urbanistico secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 231/2016).


 

1. La rilevanza della qualificazione degli interventi edilizi ai fini dell’aumento del carico urbanistico e dell’onerosità del titolo.

La sentenza della Corte Costituzionale offre lo spunto per approfondire alcuni profili della disciplina relativa al carico urbanistico e agli istituti ad esso direttamente correlati.

Il nostro ordinamento non contemplava fino al 2016 una nozione positiva e nazionale di carico urbanistico. Soltanto con l’Intesa in sede di Conferenza unificata, sancita con D.P.C.M. 20 ottobre 2016, con la quale è stato approvato il Regolamento Edilizio Tipo ai sensi dell’art. 4, comma 1-sexies, del T.U.Ed. n. 380/2001, è stato definito il carico urbanistico come il “Fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l’aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all’attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d’uso”.

In realtà, non siamo in presenza di una definizione con contenuto giuridico ma della descrizione (tra l’altro, parziale) dei fenomeni dai quali consegue la variazione del carico urbanistico. La nozione resta pertanto vaga e determinabile unicamente sulla base delle disposizioni di legge statale che presumono che ogni intervento edilizio incida sul carico urbanistico, aumentandolo, ad eccezione degli interventi, che per ragioni varie, sono invece ritenuti privi di effetti sul territorio.

Certamente rilevante, sul punto, è l’art. 23-ter del T.U. n. 380 del 2001 [1] che contiene i principi fondamentali, determinando i confini del cambio d’uso urbanisticamente rilevante. Disposizione, peraltro, sempre a rischio di applicazioni restrittive da parte delle Regioni [2]..

La conseguenza dell’aumento del carico urbanistico è l’onerosità dell’intervento [3].. L’assenza di variazione (anche non effettiva ma considerata tale dal legislatore, generalmente per motivi di opportunità sociale) comporta la gratuità dell’intervento [4].

Sia in ambito normativo [5], sia in ambito giurisprudenziale, la nozione di carico urbanistico non è altro che la descrizione delle cause che ne comportano l’aumento.

In alcune sentenze questo viene affermato espressamente: “Questa nozione [di carico urbanistico] deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento cosiddetto primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari standard urbanistici di cui al decreto ministeriale 1444/68 che richiedono l’inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone” [6].

E’ evidente tuttavia che l’indeterminatezza normativa della definizione di carico urbanistico comporti l’indeterminatezza delle applicazioni concrete e notevole contenzioso soprattutto laddove si tratti di quantificare la variazione del carico in conseguenza di interventi su edifici già esistenti [7].

L’onerosità si traduce nel pagamento del contributo di costruzione, del quale una quota è commisurata al costo di costruzione (connesso alla tipologia e all’entità - superficie e volumetria - dell’intervento edilizio) e assolve alla funzione di compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione; altra quota (gli oneri di urbanizzazione) assolve invece alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riverserà sulla zona in conseguenza dell’intervento edilizio. L’onerosità può comportare altresì (laddove la pianificazione lo imponga) la necessità di reperire le aree per i parcheggi pubblici e il verde da cedere al Comune (con o senza opere) o di provvedere (in mancanza di aree) alla c.d. “monetizzazione” [8][9]..

Mentre il costo di costruzione è legato alla “quantità” del costruito e quindi è facilmente determinabile, la quota del contributo di costruzione che si riferisce agli oneri di urbanizzazione, in quanto legata direttamente all’aumento di carico urbanistico, costituisce l’ambito maggiormente problematico.

La giurisprudenza afferma in via generale, con orientamento consolidato, che il presupposto per l’onerosità del titolo è costituito dall’aumento del carico urbanistico [10]. Espressione generica preludio di notevole contenzioso.

Tale presupposto infatti lascerebbe intendere che, a prescindere dalla qualificazione normativa dell’intervento edilizio(secondo le tipologie dell’art. 3 del T.U.Ed.) e dal fatto che la legge lo consideri come oneroso, il pagamento della parte di contributo che si riferisce agli oneri di urbanizzazione (in generale, quindi compreso anche il reperimento degli standard) deve essere la conseguenza dell’aumento effettivo del carico urbanistico, da intendersi come aumento “tanto della necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto dell’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti” [11]. Con la conseguenza che deve essere sottoposto a pagamento ogni intervento che “trasformi la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’immobile” con “oggettiva rivalutazione” [12].

Ne consegue che gli interventi di “rifacimento” o comunque “sostitutivi” dell’esistente sono ritenuti onerosi in quanto aumentano la fruibilità complessiva del fabbricato [13].

Tali affermazioni, tuttavia, lasciano perplessi laddove introducono un parametro di giudizio (una utilizzazione più intensa degli edifici esistenti) che è di difficile misurazione e quindi applicazione. E spesso le “misurazioni” offerte dalla normativa regionale (e comunale) non appaiono congrue.

Esso, inoltre, sembra a smentire il presupposto secondo il quale l’onerosità è correlata all’aumento effettivo del carico urbanistico poiché conduce a ritenere onerosi anche interventi che, oggettivamente, non vi incidono.

In tale prospettiva il contributo di costruzione, nella quota afferente agli oneri, sembra assumere una natura più prossima alla tassa che al contributo.

Sotto un profilo meramente sostanziale, non si comprende per quale ragione debba essere onerato il proprietario che ristruttura la propria abitazione lasciando inalterato, di fatto, l’impatto urbanistico [14] perché non modifica l’uso o non aumenta le unità immobiliari, rispetto al proprietario che continui ad utilizzare l’immobile fatiscente, con lo stesso impatto sul territorio.

È evidente allora che le fattispecie normative di esenzione e, soprattutto, di riduzione del contributo [15] siano eccessivamente restrittive e disincentivanti anche per l’applicazione restrittiva che ne fa la giurisprudenza [16].

La stratificazione delle norme ha ulteriormente complicato la situazione, soprattutto a causa del mutamento del contenuto di alcuni interventi edilizi (ristrutturazione, manutenzione, mutamento della destinazione di destinazione d’uso) e della difficoltà di quantificare l’onerosità relativa ad interventi sull’esistente (che costituisce la materia del contendere oggetto della pronuncia della Corte costituzionale di cui si dirà al paragrafo successivo).

Quanto agli intervenuti mutamenti delle definizioni degli interventi edilizi, preme evidenziare (a mero titolo esemplificativo) alcuni profili direttamente connessi al carico urbanistico.

Si consideri che, in applicazione dell’art.17, comma 3, lett. b) del T.U.Ed. n. 380 del 2001 (e dell’art. 32, comma 1, lett. f) della L.R. n. 15 del 2013 dell’Emilia-Romagna), sono considerati esenti gli interventi di ristrutturazione e ampliamento degli edifici unifamiliari esistenti entro il limite del 20%.

Si tratta di norma speciale e derogatoria (come peraltro tutte le disposizioni dell’art. 17) la cui portata ha subito le conseguenze del mutamento della definizione di ristrutturazione edilizia.

La ratio che ispira l’esenzione è di derivazione sociale in quanto l’edificio unifamiliare nell’accezione socio-economica assunta dalla norma coincide con la piccola proprietà immobiliare e come tale è considerato meritevole di un trattamento differenziato in relazione alle opere che comportino un miglioramento del patrimonio edilizio del singolo nucleo familiare.

L’art. 17 comma 3, lett. b) del T.U.Ed. riproduce il contenuto del previgente art. 9, 1° comma, lett. d), della Legge n. 10 del 1977, sul quale si era espressa la Corte costituzionale con sentenza n. 296 del 1991 che aveva escluso l’applicabilità dell’esenzione alle ipotesi di demolizione e ricostruzione in quanto, a quell’epoca, la demolizione e ricostruzione, quand’anche fedele, esulava dal concetto di ristrutturazione.

Pertanto, la demolizione e ricostruzione con ampliamento fino al 20% in edifici unifamiliari era da considerarsi onerosa. La Corte costituzionale in sostanza aveva mostrato attenzione agli aspetti meramente qualificatori dell’intervento: per ristrutturazione doveva intendersi ciò che il legislatore qualifica(va) come tale.

Se questo è il canone interpretativo, poiché la normativa è successivamente mutata in modo radicale fino a ricomprendere nel concetto di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione non fedele, è evidente che occorra oggi ricomprendere nell’esenzione anche tali interventi.

La tipologia “ristrutturazione e ampliamento” non è prevista tra gli interventi edilizi come definiti dall’art. 3 del T.U.Ed., quindi non è sovrapponibile a nessuno di essi. Contempla infatti due interventi in uno. Peraltro, nell’ipotesi (frequente) in cui un intervento di questo tipo sia qualificato nel titolo edilizio come nuova costruzione (unitariamente considerata, la ristrutturazione con ampliamento è nuova costruzione (art. 3, comma 1, lett. e.1), esso deve comunque considerarsi esente in presenza di tutti gli altri presupposti indicati dalla disposizione citata [17].

Da quanto detto, deve concludersi che non sempre un intervento edilizio che rientri tra quelli per i quali la legge presume l’onerosità comporta un effettivo aumento del carico urbanistico, nonostante l’art. 16 del T.U.Ed. n. 380 del 2001 indichi uno schema piuttosto rigido: “Salvo quanto disposto dall’art. 17, comma 3 (che disciplina le esenzioni), il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.

Per superare questo schema dovrebbe pervenirsi alla conclusione che la definizione degli interventi edilizi non sia esportabile sempre e comunque in ogni ambito.

Basti pensare alla recente decisione del Consiglio di Stato [18] che ha ritenuto che ai fini delle distanze possa considerarsi come nuova costruzione solo l’edificio che sia “costruito per la prima volta” e non già un edificio preesistente che sia oggetto di ricostruzione o di ampliamento, benché quest’ultimo, stando alla definizione dell’art. 3, comma 1, lett. e.1), del T.U.Ed. dovrebbe qualificarsi come nuova costruzione e, come tale, essere subordinato al rispetto delle distanze.

Senza volersi soffermare, preme sottolineare che tale decisione parte del tutto correttamente dalla ratio delle disposizioni “derivate”, applicabili sul presupposto di altre (in quel caso, la normativa sulle distanze) per determinare i limiti all’applicazione del presupposto. Pertanto, l’obbligo del rispetto delle distanze è applicabile soltanto nel caso di intervento edilizio che comporti il “riempimento” di un precedente vuoto, vale a dire quindi solo laddove si costruisca ex novo (anche in altezza su edificio preesistente).

Lo stesso dovrebbe avvenire in relazione all’onerosità dei titoli, il cui presupposto è dovrebbe essere costituito dall’incidenza effettiva sul carico urbanistico a prescindere dalla qualificazione dell’intervento.

Così, per le parti ricostruite, non vi è dubbio che non vi sia alcun aumento di carico urbanistico, a parte la maggiore “fruibilità” del fabbricato di cui si è detto sopra.

Tale conclusione, tuttavia, sembra porsi in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale, come interpretati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 231 del 2016, di cui si dirà nel paragrafo successivo. La Corte, infatti, ritiene che le ipotesi di esenzione non siano ampliabili da parte del legislatore regionale il quale potrebbe, al più, determinare una loro riduzione. Pertanto, la qualificazione dell’intervento edilizio come oneroso continua ad essere insuperabile anche qualora, di fatto, non vi sia aumento del carico urbanistico.

La Regione Emilia-Romagna ha da sempre applicato in modo estensivo il principio dell’onerosità degli interventi edilizi, imponendo il pagamento del contributo anche agli interventi che espressamente non comportino aumento del carico urbanistico, sulla base del presupposto che le opere di urbanizzazione richiedono periodici interventi di manutenzione [19].

È vero peraltro che, fin dalla delibera di Consiglio regionale n. 849 del 1998, che contiene indicazioni procedurali per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione ed ancora in vigore nonostante la disciplina giuridica degli interventi e dei titoli edilizi dal 1998 ad oggi sia profondamente mutata [20], è stato dato rilievo ai profili sostanziali dell’intervento edilizio.

L’art. 1.5.4, 2° comma, di tale delibera, dispone in primo luogo che “per gli interventi di ristrutturazione di edifici esistenti con aumento del carico urbanistico la superficie utile di intervento cui applicare gli oneri di urbanizzazione è quella riferita alla parte in aumento”; poi, la disposizione continua affermando che “nel caso di intervento anche sulla parte preesistente la superficie utile cui applicare l’onere è computata ai sensi del precedente capoverso”.

Pertanto, se l’aumento del carico urbanistico ha coinvolto solo una parte dell’edificio, sarà su tale porzione che andrà calcolato il contributo; se invece è stata coinvolta anche la parte preesistente, l’intervento sarà gratuito se rientra nei casi indicati e previsti dal 1° comma come interventi esenti; se invece non rientra nei casi di gratuità si applicherà il contributo anche sulla superficie preesistente.

Pertanto, anche la superficie preesistente può essere coinvolta nel pagamento degli oneri ma lo sarà in misura adeguata al tipo di intervento, vale a dire se con aumento o senza aumento del carico urbanistico [21]. Lo stesso è previsto per il costo di costruzione. La delibera di Consiglio regionale n. 1108 del 1999, al punto 1.5, prevede che “nel caso di ampliamento di edifici residenziali esistenti….. il costo di costruzione si applica alla superficie in ampliamento”.

L’argomento peraltro è molto vasto e si tratta solo di meri spunti di riflessione, non esaustivi.


 

2. La definizione di carico urbanistico secondo la Corte costituzionale (sentenza 3 novembre 2016 n. 231).

La decisione della Corte costituzionale n. 231 del 2016, resa sulla legge urbanistica della Regione Liguria n. 12 del 2015, si segnala per avere fissato alcuni punti fondamentali in relazione al tema del carico urbanistico proprio per sottolineare il grande rilievo che la sentenza ha attributo alle disposizioni statali le quali, sul presupposto dei diversi effetti sul carico urbanistico, qualificano gli interventi edilizi, indicano i relativi titoli e dispongono in merito alla onerosità o alla gratuità [22].

Si tratta di un concetto attorno al quale ruota l’intero governo del territorio, in quanto sia le fonti normative sia quelle regolamentari, ivi compresa la pianificazione, sono principalmente finalizzate a disciplinare gli effetti sul territorio delle diverse tipologie di interventi e la diversità della disciplina dipende in gran parte dal diverso impatto che ogni intervento produce (o si presume che produca) sul territorio, vale a dire dal fabbisogno di dotazioni che l’intervento determina.

La Corte parte dal presupposto in base al quale il carico urbanistico costituisce un principio fondamentale della legislazione statale.

Ad assurgere a principio non è tanto la definizione normativa di carico urbanistico in quanto tale che, di fatto, non esiste[va]c’è [23], quanto piuttosto la interrelazione tra tale concetto e la classificazione degli interventi edilizi (art. 3, comma 1, lett. b), 10, comma 3 e 17, comma 4, del T.U.Ed.), la individuazione dei titoli abilitativi e la disciplina del contributo di costruzione, ambiti che la Corte ha più volte indicato come devoluti alla competenza esclusiva dello Stato a cui devono attenersi le disposizioni regionali [24].

La questione rimessa alla Corte riguardava alcuni interventi qualificati genericamente dalla legge regionale Liguria come “interventi sul patrimonio edilizio esistente”, che venivano esonerati dal contributo di costruzione anche se determinavano un aumento della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari, quando siffatto incremento fosse inferiore a 25 mq e la variazione derivasse da una semplice eliminazione di muri divisori; esonerava dal contributo anche gli interventi di frazionamento di unità immobiliari che determinassero un aumento del numero di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pure con aumento di superficie agibile.

Con tali disposizioni (art. 6, comma 20 e comma 21, primo trattino, della L.R. n. 12 del 2015), la Regione aveva contemporaneamente inciso sulla definizione delle categorie di intervento, sulla definizione di carico urbanistico e sulla disciplina statale del contributo di costruzione e dei relativi esoneri.

Incideva in particolare sull’ampiezza della nozione di manutenzione straordinaria, come definita dall’art. 3, comma 1, lett. b) e dall’art. 6, comma 2, lett. a) del T.U.Ed. [25]; della ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lett. d, T.U.Ed.) e dei casi di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione (art. 17, comma 3, T.U.Ed.): gli interventi sul patrimonio edilizio esistente possono infatti rientrare nella manutenzione straordinaria o nella ristrutturazione o anche nella nuova costruzione e la disposizione regionale prevedeva un’esenzione per ipotesi che, stando alla legge statale, non avrebbero invece potuto beneficiarne.

Ed infatti l’art. 17, comma 4, del T.U.Ed., per la manutenzione straordinaria che aumenti la superficie calpestabile [26], prevede l’esenzione dal pagamento unicamente riguardo al costo di costruzione (riducendo quindi il pagamento del contributo di costruzione alla sola parte che si riferisce agli oneri di urbanizzazione), senza fare distinzioni tra i vari tipi di manutenzione straordinaria (a parte l’esenzione per gli interventi sugli edifici unifamiliari) come invece era previsto dalla disposizione regionale che aveva individuato alcuni interventi “minori” sotto il profilo del carico urbanistico e li aveva esentati dall’intero contributo.

Quanto agli interventi di ristrutturazione sul patrimonio esistente, l’art. 17, comma 4 bis, del T.U.Ed. prevede la riduzione della sola misura del contributo di costruzione se gli interventi siano effettuati su edifici dismessi o in via di dismissione [27].

Le citate disposizioni regionali avevano ampliato tali fattispecie, violando in tal modo i principi fondamentali della materia rimessi alla legislazione dello Stato.

L’art. 6, comma 21, secondo trattino, della L.R. Liguria n. 12 del 2015 riguardava invece una ipotesi di riduzione della misura del contributo, e la questione di costituzionalità è stata, con tale riguardo, rigettata.

La Corte ha infatti affermato che costituiscono principi fondamentali della materia “governo del territorio” solo le ipotesi di esenzione, non le ipotesi di riduzione della misura del contributo di costruzione, in quanto quest’ultima ipotesi salvaguarda il principio dell’onerosità degli interventi edilizi che costituisce la regola sancita dalla legislazione statale, basata sulla presunzione che gli interventi edilizi incidano sul carico urbanistico.

Mentre la gratuità rappresenta una eccezione totale al principio di onerosità, che spetta tassativamente indicata dalla legge statale.

Con la conseguenza che i casi di esenzione non possono essere ampliati dalla legge regionale che può solo determinare la misura (più o meno ampia) della riduzione.

La Corte ha così ritenuto legittima la disposizione regionale che precisi (misurandola) la nozione di aumento del carico urbanistico, in quanto non lesiva del principio fondamentale espresso dalla norma statale che prevede ipotesi di riduzione della misura del contributo per gli interventi di manutenzione straordinaria che comportino aumento del carico urbanistico.

In conclusione, è demandato alla legge statale di stabilire quali siano gli interventi edilizi (da definirsi anch’essi solo in ambito statale) non sottoposti al contributo di costruzione, o a parte di esso, nonché di stabilire le ipotesi di riduzione. Le relative disposizioni esprimono principi fondamentali, non derogabili in ambito regionale.

La misura del contributo invece può essere oggetto di una disciplina dettagliata regionale, sempre nel rispetto dei limiti (minimi) stabiliti dalla legge statale, quando previsti (così ad esempio, art. 17, comma 4 bis, T.U.Ed.) [28].

Vale insomma, in materia di contribuzione urbanistica, lo stesso principio valevole per le sanzioni edilizie che costituiscono materia devoluta, quanto alla indicazione dei principi fondamentali, alla competenza dello Stato, mentre le Regioni possono legiferare in tema di misura delle sanzioni che, in quanto normativa di dettaglio, è rimessa al potere regionale e al potere regolamentare degli stessi Comuni [29].

Note


[1] Inserito, come noto, dall'art. 17, comma 1, lettera n), del D.L. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 2014 n. 164 (1° comma, “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.

[2] Sul cambio d’uso, anche a seguito dell’introduzione dell’art. 23 ter del T.U.Ed. n. 380/2001 e dell’art. 28 della L.R. n. n. 15 del 2013, con Circolare Prot. n. 2016/113406 del 22 febbraio 2016 Servizio Affari Generali Regione Emilia-Romagna si è precisato che: “i commi 3 e 4 dell'art. 28 della L.R. n. 15 del 2013 specificano le due situazioni in cui il mutamento d'uso comporta un aumento del carico urbanistico, richiedendo di conseguenza il reperimento di ulteriori standard urbanistici, in termini di dotazioni territoriali o di parcheggi pertinenziali (o la loro monetizzazione nei soli casi previsti dall'art. A-26 della L.R. 20 del 2000) e il versamento degli oneri di urbanizzazione. La prima ipotesi attiene al passaggio (con aumento di standard) tra le seguenti sei categorie funzionali: residenziale, turistico ricettiva, produttiva, direzionale, commerciale e rurale. Si evidenzia che è stata mantenuta la separazione tra le categorie produttiva e direzionale, che nell'attuale ordinamento regionale presentano carichi urbanistici differenti. La seconda ipotesi richiama i casi nei quali la legge regionale e i relativi provvedimenti attuativi stabiliscono, per destinazioni d'uso appartenenti alla medesima categoria funzionale, "diverse dotazioni territoriali e pertinenziali", oltre che differenti criteri localizzativi legati alle caratteristiche delle stesse. Tale circostanza è prevista dalle vigenti disposizioni regionali relative, ad esempio, alle dimensioni e al settore merceologico delle strutture commerciali, alle diverse tipologie di strutture ricettive, alle sale cinematografiche, ecc. In sintesi, la nuova legge regionale stabilisce che vi è aumento del carico urbanistico solo in caso di mutamento d'uso che comporta il passaggio da una ad un'altra categoria funzionale e, nella ipotesi di mutamento tra usi compresi nella stessa categoria funzionale, che presentino, per espressa previsione di legge o di un atto regolamentare differenti dotazioni territoriali e parcheggi pertinenziali”.


[3] Tra tutti, gli interventi sottoposti a permesso di costruire (art. 16 del T.U.Ed. n. 380/2001).

[4] Cfr. art. 17 del T.U.Ed.. A parte le ipotesi di gratuità per motivi soggettivi (tra gli altri, gli interventi edilizi realizzati dall’imprenditore agricolo per esigenze legate alla conduzione del fondo).

[5] Artt. 3 e 17 del T.U. n. 380 del 2001. Art. 30, comma 1, L.R. n. 15 del 2013.

[6] Cass. Pen., Sez. un., 29 gennaio/20 marzo 2003 n. 12878, in Cass. pen., 2003, 1829, con nota di P.TANDA, ed in Riv. giur. edilizia, 2003, I, 1408.

[7] Tra le tante, cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 6 maggio 2014, n. 468, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui “gli oneri di urbanizzazione devono essere ricalcolati in modo da tenere conto soltanto dell'incremento del carico urbanistico. Poiché non esiste un metodo univoco, e in mancanza di una disciplina comunale di carattere generale, è possibile procedere in via residuale scorporando dall'importo calcolato secondo i parametri attuali quello originariamente versato per il medesimo titolo al momento della costruzione dell'edificio e dei successivi ampliamenti; (h) il confronto tra questi importi va fatto in base al loro valore nominale (previa conversione in euro), perché le somme versate a suo tempo dal privato corrispondono a opere di urbanizzazione che l'amministrazione ha realizzato nel medesimo periodo, mentre le nuove opere devono essere evidentemente eseguite con i costi attuali, che non possono essere compensati attraverso rivalutazioni virtuali. In altri termini, più ci si allontana dalla data di costruzione dell'edificio, minore è l'utilità delle originarie opere di urbanizzazione, e quindi maggiore è il contributo economico che può essere ragionevolmente chiesto al privato quando attraverso interventi di ristrutturazione viene aumentato il carico urbanistico”.

[8] Tradizionalmente, i contributi di urbanizzazione e le somme dovute per la monetizzazione degli standard non hanno una natura omogenea: “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve nel contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata dalla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2011, n. 1013, in giustizia-amministrativa.it. Ciò che impedisce di scomputare dall’importo degli oneri l’importo corrisposto per la monetizzazione degli standard (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 29 novembre 2013, n. 1034, ibidem).

[9] Si segnala che dal 2018, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 460, della Legge 11 dicembre 2016 n. 232 (Legge di bilancio 2017), i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni cesseranno di essere una entrata genericamente destinata a investimenti, per tornare a essere un’entrata vincolata per legge (alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche a fini di prevenzione e di mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e di tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico e a spese di progettazione per opere pubbliche).

[10] Tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009, n. 3847, che richiama Sez. IV, 29 aprile 2004, n. 2611; Sez. V, 15 dicembre 1997, n. 959; idem, 21 gennaio 1992, n. 61 e 27 gennaio 1990, n. 693.

[11] Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2294, , in giustizia-amministrativa.it.

[12] Cons. Stato, Sez. V, 3 marzo 2003, n. 1180, ibidem.

[13] Emblematico il caso deciso da Cons. Stato, Sez. V, n. 3847/2009, cit., avente ad oggetto la demolizione di tre fabbricati ad uso in parte residenziale e la sostituzione con due palazzine ad uso residenziale. L’intero intervento edilizio era stato assoggettato a contribuzione come nuova costruzione anche se, in parte, era sostitutivo dell’esistente. Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la richiesta non solo perché le due nuove costruzioni non avevano alcun riferimento con i tre fabbricati demoliti, essendo diversamente ubicate, strutturate su un maggior numero di piani ed adibiti ad uso esclusivamente residenziale ma anche perché i precedenti fabbricati possedevano un carico urbanistico del tutto irrilevante per la loro fatiscenza e condizione di abbandono.

[14] Le c.d. Tabelle regionali e comunali qualificano infatti questi interventi come ristrutturazioni “senza aumento del carico urbanistico”.

[15] Art. 17, comma 4 bis, T.U.Ed. n. 380/2001.

[16] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2017, n. 4576, in giustizia-amministrativa.it: “Gli oneri di urbanizzazione non devono essere computati solo sulla porzione di intervento che effettivamente ha comportato un incremento del carico urbanistico o, in altri termini, sulla sola porzione oggetto di ampliamento”. Vi sono peraltro anche posizioni diverse (per la verità, assolutamente minoritarie). Così TAR Piemonte, Sez. I, n. 456 del 2010, non appellata, che ha escluso dal computo degli oneri la parte ricostruita, ritenendo assoggettabile unicamente l’ampliamento.

[17] Si segnala infine, per completezza, che l’art. 32, comma 1, lett. f) della L.R. n. 15 del 2013 Emilia-Romagna utilizza un’altra espressione – “ristrutturazione «o» ampliamento” – e sembra quindi ammettere all’esenzione solo uno dei due tipi di intervento.

[18] Cons. Stato, Sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337, in giustizia-amministrativa.it.

[19] Così, la delibera C.R. n. 850 del 1998. Cfr., inoltre, parere del Servizio Affari Generali della Regione Emilia-Romagna, PG. 2016.113406 del 22 febbraio 2016, consultabile sul Portale “Codice del governo del territorio” della Regione.

[20] Cfr. art. 29, comma 4, della L.R. n. 15 del 2013 Emilia-Romagna.

[21] Le modalità applicative da parte dei Comuni, tuttavia, non sempre sono coerenti e si assiste all’applicazione dei parametri previsti per le nuove costruzioni ogni qualvolta l’intervento “nel suo complesso”, quindi senza distinzione tra ampliamento e ricostruzione, sia considerato come tale.

[22] Consultabile in www.giurcost.it. Le parti rilevanti sono i punti 6 e segg. che trattano le questioni relative all’art. 6, comma 20 e comma 21, primo e secondo trattino, della L.R. n. 12 del 2015, recanti modifiche, rispettivamente, all’art. 38, comma 1, 39, comma 1 e 39 comma 2 bis, della L.R. n. 16 del 2008. La Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 6, commi 20 e 21, primo trattino.

[23] Come si è detto, la prima definizione di carico urbanistico, si rinviene infatti nel D.P.C.M. 20 ottobre 2016, e quindi in fonte regolamentare che non era oggetto di giudizio da parte della Corte costituzionale, anche perché pubblicata dopo l’emanazione della sentenza (G.U. n. 268 del 16 novembre 2016).

[24] Sulla natura fondamentale delle norme statali relative ai titoli edilizi, cfr. ex multis, Corte cost. n. 303 del 2003, punto 11.2 delle “Considerazioni in diritto”; sulla definizione delle categorie di interventi, tra le tante, v. Corte cost. n. 309/2011, n. 102/2013 e n. 139/2013, tutte consultabili in giurcost.it.

[25] L’intero comma 2 dell’art. 6 è stato in seguito abrogato dall'articolo 1, comma 1, lettera b), numero 4), del D. Lgs. 25 novembre 2016, n. 222.

[26] Ipotesi di difficile inquadramento. L’unico caso, di fatto, è quello della realizzazione di un soppalco. Ogni altra ipotesi di “aumento della superficie calpestabile” finirebbe per rientrare nella tipologia della ristrutturazione.

[27] L’art. 16, comma 10, del T.U.Ed., prevede inoltre che “Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all' articolo 3, comma 1, lettera d) , i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.

[28] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 maggio 2017 n. 2567, in giustizia-amministrativa.it, che cita la decisione della Corte in commento ricordandone i principi: “Occorre premettere che il permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso (da ultimo, Corte Cost. n. 231 del 2016), di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come eccezioni ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della legislazione statale, da ritenere quali principi fondamentali in tema di governo del territorio”.

[29] Cfr. Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 362, in giurcost.it, di cui vale la pena riprodurre il passaggio rilevante della motivazione (paragrafo 5.3) “Per risolvere l'indicata questione di legittimità costituzionale occorre pertanto verificare se nella specie sia stato rispettato il criterio per cui, nelle materie di legislazione concorrente, la normativa statale deve limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, spettando invece alle Regioni la regolamentazione di dettaglio. Nel testo originario, l'art. 42 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) non eccedeva l'ambito della determinazione di principi fondamentali, sia quando sceglieva di colpire con una sanzione pecuniaria il ritardato o mancato pagamento del contributo di costruzione, sia quando demandava alla legge regionale di stabilirne discrezionalmente l'importo, all'uopo individuando tre fasce di inadempimento secondo la durata del ritardo e fissando per ciascuna di esse un ammontare minimo ed uno massimo costituito dal suo doppio. E' bensì vero che nella nuova versione dell'art. 42 risultante dalla modifica disposta dalla legge impugnata – per effetto della riduzione dei valori minimi di ciascuna fascia, che indirettamente incide anche sui valori massimi – l'ambito entro il quale la legge regionale determina la misura delle sanzioni risulta oggettivamente più angusto rispetto al passato. Ma si tratta di una modificazione meramente quantitativa, che non tocca la struttura della norma, che pertanto continua – anche nel nuovo testo – ad esprimere principi fondamentali”.

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Dissensi: pubblicazione a cura dell’Associazione “Gruppo Bolognese di Studiosi del Diritto Edilizio e Urbanistico”
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